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La nostra scuola di musica. La nostra vita.

di Deborah Conte

Negli anni venti del secolo scorso una bambina intingeva il pennino nell’inchiostro e copiava le note di una parte per mandolino. Ecco, ancora una canzoncina allusiva e piccantina: mi piaci nel chiaro mi piaci nello scuro cantava la voce. Aveva solo cinque anni. Era mia nonna. Poi su quella parte copiata per lei e per i suoi piccoli amici – uno aveva un mandolino, lei il pianoforte, un altro una fisarmonica sgangherata – cominciava a creare un accompagnamento. Aveva imparato a leggere e scrivere la musica da sola, l’aveva insegnato agli altri piccoli apprendisti, si erano incontrati per suonare e si divertivano. Le sere dei ricevimenti in casa, scappava dietro la ghiacciaia, perché era stanca di suonare. Ma era diventata tanto brava da consentire agli invitati di ballare per ore. Così la tiravano per i piedi, la riprendevano e ancora per ore il piccolo trio suonava. Gli uomini ad un angolo a parlare, fumare, guardare. Le ragazze a cercar marito. Le tavole imbandite di niente.

Lello, Nonna Lydia e Olimpia Lusco Cutrera – 1918 Vergine Maria

Negli anni ottanta del secolo scorso un’altra bambina saliva faticosamente una lunga e imponente scala; riprendeva fiato, bussava, entrava, richiudeva la porta dietro le spalle. Era un luogo che imponeva il silenzio e in quell’aula pesante imparava a leggere e scrivere le note, ad andare a tempo, a conoscere i pezzi ; insomma a conoscere la musica, quella importante, quella dei compositori antichi, morti e mille volte ancora morti. Quella bambina ero io.

Ogni volta che penso a quelle porte, mi convinco sempre più di come fossero chiuse a proteggere posizioni radicate e cristallizzate nel tentativo di eludere la necessità del confronto. La perfettibilità insita in tutte le forme dell’espressione umana non consente di parlare di verità e ci costringe ad una continua rivoluzione dello spirito, alla ricerca infinita. Quasi sempre cercare il possesso di verità assolute impone uno sforzo enorme e per lo più perdente. Così, se la musica scorresse più liberamente durante quei ricevimenti visionari o dietro le porte che noi conosciamo bene, ancora oggi , io non riesco a dirlo.

Ma in questa scuola i bambini si aggirano per le aule liberamente, hanno modo di ascoltare, di conoscere, di provare, di andare a casa e nuovamente ritornare. Hanno una stanza dove stare a piedi scalzi e sentire le vibrazioni dei suoni, come gli indiani, poggiando l’orecchio per terra. La stessa cosa fanno quando diventano fanciulli, ragazzi, uomini adulti, uomini che cominciano a curvarsi sotto il peso degli anni. Se tanto “esiste” oggi di anacronistico e inaccettabile nel mondo degli affari musicali, del concertismo, del “concorsismo” musicale, della politica, che condiziona il nostro gusto, le nostre scelte e le nostre idee, tanto altro “resiste” che rappresenta ancora una necessità interiore: quella che muove le masse verso il mondo dei suoni.

La scuola, crocevia di identità e culture, gusti e storie di vita in cammino è il luogo della ricerca, dell’ascolto, del gioco. La scuola offre ed è questo. Si studia ogni giorno il modo di trarre da ogni esperienza una strada più certa: i docenti discutono, gli alunni si ascoltano. Una volta al mese ci si ritrova insieme a suonare e a trasformare in parole le idee sulla musica: la qualità del suono, l’attacco del tasto, le idee sull’interpretazione dei testi, la ricerca degli elementi che rendono convincente e profonda un’esecuzione. Ognuno diventa maestro e, nel momento in cui esprime il proprio punto di vista, chiarisce la propria idea, riconosce la propria identità musicale, scopre il desiderio profondo della conoscenza e la potenza di quella necessità interiore che lo muove. Comincia a percepire il senso vitale che ogni percorso formativo porta con sé e mentre lo fa sta già costruendo il proprio.

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DSC_6367-001La nostra scuola di musica. La nostra vita.

di Deborah Conte

Negli anni venti del secolo scorso una bambina intingeva il pennino nell’inchiostro e copiava le note di una parte per mandolino. Ecco, ancora una canzoncina allusiva e piccantina: mi piaci nel chiaro mi piaci nello scuro cantava la voce. Aveva solo cinque anni. Era mia nonna. Poi su quella parte copiata per lei e per i suoi piccoli amici – uno aveva un mandolino, lei il pianoforte, un altro una fisarmonica sgangherata – cominciava a creare un accompagnamento. Aveva imparato a leggere e scrivere la musica da sola, l’aveva insegnato agli altri piccoli apprendisti, si erano incontrati per suonare e si divertivano. Le sere dei ricevimenti in casa, scappava dietro la ghiacciaia, perché era stanca di suonare. Ma era diventata tanto brava da consentire agli invitati di ballare per ore. Così la tiravano per i piedi, la riprendevano e ancora per ore il piccolo trio suonava. Gli uomini ad un angolo a parlare, fumare, guardare. Le ragazze a cercar marito. Le tavole imbandite di niente.

Nonna-Lydia

Lello, Nonna Lydia e Olimpia Lusco Cutrera – 1918 Vergine Maria

Negli anni ottanta del secolo scorso una bambina saliva faticosamente una lunga e imponente scala; riprendeva fiato, bussava, entrava, richiudeva la porta dietro le spalle. Era un luogo che imponeva il silenzio e in quell’aula pesante imparava a leggere e scrivere le note, ad andare a tempo, a conoscere i pezzi ; insomma a conoscere la musica, quella importante, quella dei compositori antichi, morti e mille volte ancora morti. Quella bambina ero io.

Ogni volta che penso a quelle porte, mi convinco sempre più di come fossero chiuse a proteggere posizioni radicate e cristallizzate nel tentativo di eludere la necessità del confronto. La perfettibilità insita in tutte le forme dell’espressione umana non consente di parlare di verità e ci costringe ad una continua rivoluzione dello spirito, alla ricerca infinita. Quasi sempre cercare il possesso di verità assolute impone uno sforzo enorme e per lo più perdente. Così, se la musica scorresse più liberamente durante quei ricevimenti visionari o dietro le porte che noi conosciamo bene, ancora oggi , io non riesco a dirlo.

Ma in questa scuola i bambini si aggirano per le aule liberamente, hanno modo di ascoltare, di conoscere, di provare, di andare a casa e nuovamente ritornare. Hanno una stanza dove stare a piedi scalzi e sentire le vibrazioni dei suoni, come gli indiani, poggiando l’orecchio per terra. La stessa cosa fanno quando diventano fanciulli, ragazzi, uomini adulti, uomini che cominciano a curvarsi sotto il peso degli anni. Se tanto “esiste” oggi di anacronistico e inaccettabile nel mondo degli affari musicali, del concertismo, del “concorsismo” musicale, della politica, che condiziona il nostro gusto, le nostre scelte e le nostre idee, tanto altro “resiste” che rappresenta ancora una necessità interiore: quella che muove le masse verso il mondo dei suoni.

La scuola, crocevia di identità e culture, gusti e storie di vita in cammino è il luogo della ricerca, dell’ascolto, del gioco. La scuola offre ed è questo. Si studia ogni giorno il modo di trarre da ogni esperienza una strada più certa: i docenti discutono, gli alunni si ascoltano. Una volta al mese ci si ritrova insieme a suonare e a trasformare in parole le idee sulla musica: la qualità del suono, l’attacco del tasto, le idee sull’interpretazione dei testi, la ricerca degli elementi che rendono convincente e profonda un’esecuzione. Ognuno diventa maestro e, nel momento in cui esprime il proprio punto di vista, chiarisce la propria idea, riconosce la propria identità musicale, scopre il desiderio profondo della conoscenza e la potenza di quella necessità interiore che lo muove. Comincia a percepire il senso vitale che ogni percorso formativo porta con sé e mentre lo fa sta già costruendo il proprio.

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